mercoledì 4 febbraio 2009

Pro-voc@zioni

Per osare con Paolo la nostra vocazione

L’incontro sulla via di Damasco segna il chilometro zero di uno degli itinerari missionari più strepitosi che la storia del cristianesimo conosca. Paolo accoglie la sua vocazione e decide di osarla fino in fondo. Non si accontenta di viverla. Lui la osa, la azzarda, la respira a pieni polmoni, trasformando ogni fibra del suo essere in annuncio. Proclamare il Vangelo è in lui un’esigenza, bisogno profondo e ragione di vita: “Guai a me se non annunciassi il Vangelo” – esclamerà nella prima lettera alla comunità di Corinto. La missione non sarà mai un mestiere per Paolo. È il senso del suo essere, è una ricerca continua, è notte insonne, anelito, sete, è stupore … fino a poter dire: “Non son più io che vivo, ma vive in me Cristo” (Gal 2,20).

Paolo si fa nomade per il vangelo. Ha bisogno delle strade, di sposarne le curve, di sentirne le asperità sotto la pianta del piede. Forse è sempre a causa di quel primo incontro con il Risorto, incontro consumato sulla strada, appunto. La polvere sui piedi, la stanchezza nei polpacci, il vento sulle labbra, il sudore che tremola sul ciglio degli occhi, tutto gli parla di quel giorno, della Luce che gli spense la luce, di quella voce (dolcissima voce) che ridusse a silenzio tutte le sue certezze. La nostalgia di quell’incontro decisivo lo spinge a nuove partenze. Paolo sente che, passo dopo passo, incrocio dopo incrocio, curva dopo curva, si prolunga e si precisa quell’esperienza originaria. Vede il vangelo farsi carne nella sua carne. Lo sente crescere in lui, lievitare nelle pieghe delle sue giornate, farsi balsamo sulle piaghe della sua umanità, man mano che lo dona, incontro dopo incontro, da una città all’altra, da una piazza all’altra. “Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio” (Rm 1,1), si fa nomade perché tale è il Dio di Gesù. Yahwè ha familiarità con le strade degli uomini. Anzi, con Israele fa esperienza anche delle piste canicolari del deserto. Conosce talmente il camminare che è capace di aprire cammino anche lì dove il cammino sembra impossibile, come quel giorno quando divise il mare e col suo popolo di schiavi lo attraversò. Yahwè è il Dio che ascolta il grido del suo popolo e “scende” perché i suoi “salgano” verso la terra che lui ha preparato per loro. Ad ogni tribù d’Israele è assegnata una porzione della terra promessa. A tutte, tranne ad una: la tribù di Levi. I leviti, infatti, dovevano disperdersi in tutto Israele e passare di terra in terra, per essere segno visibile della itineranza di Dio in mezzo al suo popolo. Quando i leviti smarriranno la loro vocazione di nomadi, saranno profeti itineranti ad esprimere la vicinanza e la sollecitudine di Dio per Israele. In Gesù, poi, Dio si dà un corpo per muoversi incontro all’uomo. Gesù, il Dio-con-noi, sempre in viaggio, senza una pietra dove posare il capo, s’identificherà talmente col camminare che di sé dirà: “Io sono la via”. Quello stesso Gesù, perché il suo camminare in mezzo agli uomini si prolunghi nello spazio e nel tempo, indicherà agli apostoli gli estremi confini della terra come nuovo orizzonte della loro esistenza. Sulla via Paolo incontra la “Via” e gli entra nel sangue. Da quel momento solo gli interessa di piacere a Dio che l’ha reso degno di annunciare il Vangelo (cfr 1Ts 2,3-5) e di farsi imitatore di Cristo (cfr 1Cor 11,1).

Abbiamo definito Paolo un nomade del vangelo, ma, forse, lui preferirebbe essere descritto come errante. Parola decisiva per Israele, scritta nel cuore più antico del testo santo: “Mio padre era un Arameo errante …” (Dt 26,5). Quante volte Paolo avrà ripetuto nella festa delle primizie l’incipit del piccolo credo storico di Israele. Errare non vuol dire solo vagare, camminare, muoversi, ma anche sbagliare. Paolo si riconosce in entrambi i sensi di questa parola. Egli è, infatti, errante per il Vangelo dopo l’incontro con il Risorto, sempre in movimento, instancabile camminatore, pellegrino di città in città. Ma errante era anche quando si chiamava ancora Saulo, chiuso com’era nel suo zelo farisaico, prigioniero della Legge, persecutore di cristiani. Corre per il mondo proclamando il Vangelo, ma sentirà perennemente sulle braccia il peso dei mantelli degli uccisori di Stefano. La forza del suo annuncio nasce dalla coscienza della sua fragilità. Paolo conosce il suo lato oscuro. Egli che è passato attraverso la stagione del fanatismo, sa che gli uomini religiosi possono essere di una ferocia assoluta quando smettono di nutrirsi di misericordia e di passione autentica per l’uomo. Danno a Dio il volto crudele della loro arroganza e nel tentativo di difenderne l’assoluta purezza macchiano il suo nome col sangue dei suoi stessi figli. Chiamano pietà la loro ferocia e timor di Dio il loro disprezzo per la vita degli altri. Ecco perché Paolo si aggrappa alla Croce con la disperazione di un naufrago. Ha bisogno del Crocifisso, di centrarsi unicamente su di lui. Gli occorre la “follia” della Croce per guarire dalla febbre della Legge che lo ha consumato per anni.


Qualche domanda per la nostra vita

Osare la propria vocazione
Che cosa può aiutarmi a non trasformare in mestiere la mia vocazione?
Quali freni sento dentro di me ed intorno a me quando penso alla possibilità di vivere una esperienza missionaria?

Nomadi del Vangelo
Mi sento chiamato ad abbracciare il mondo e a vivere una vocazione universale?
Come posso preservarmi dal rischio di “sedentarizzazione” spirituale?

Errante
Che rapporto ho con le mie ferite, con la fragilità?
Paolo dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Cosa vuol dire con questa frase? Ho già vissuto un’esperienza in cui ho potuto sperimentarne la verità? Racconta.

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