lunedì 9 febbraio 2009

Comunicato Stampa


Nota del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica
in merito al caso Englaro e ai problemi di assistenza socio-sanitaria


Il Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, diretto dal prof. Adriano Pessina, in merito al caso Englaro e ai problemi si assistenza socio-sanitaria dichiara:

Il Caso Englaro nei suoi aspetti etici, clinici, giuridici, politici, ha aperto problemi nuovi alla società civile. Si profilano di fatto dei cambiamenti che interessano il rapporto tra medico e paziente nelle prassi di cura, che mettono in discussione il tema dell’indisponibilità della vita come principio costituzionale, che tendono quasi ad attribuire ai tribunali un potere legislativo sul modello del common law, estraneo alla tradizione giuridica italiana, che mettono in discussione l’impostazione dell’assistenza socio-sanitaria nazionale e il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità. L’idea che la soluzione a questi problemi possa venire soltanto dall’introduzione del testamento biologico è perlomeno discutibile, perché al di là dei desideri del singolo cittadino, è necessario sapere a quali criteri oggettivi si ispira l’assistenza sanitaria nazionale, quali garanzie di tutela e di non discriminazione sono date a coloro che non intendono fare il testamento biologico, o che, per età, condizioni patologiche, condizioni culturali, non lo faranno mai: la scelta di essere curati indipendentemente dalle condizioni mentali contingenti o permanenti verrà stigmatizzata come irrazionale? O lasceremo che ogni singolo caso venga arbitrariamente deciso secondo le prospettive etiche dei singoli tutori? Nel caso Eluana sono riecheggiate frasi come “vita non degna di essere vissuta” e sono stati formulati giudizi sconcertanti sulla stessa morte, al punto che Eluana sarebbe nello stesso tempo morta 17 anni fa e però dovrebbe essere, oggi, lasciata morire di morte naturale. Quali garanzie di non discriminazione e di reale tutela delle persone che non sono autosufficienti a livello fisico o psichico possono essere fornite laddove prevalessero l’opinione, l’emozione, i disagi esistenziali e le sofferenze di quanti dovrebbero prendersene cura?
Nessuno si illuda di mettere il bavaglio alla coscienza e all’intelligenza dei cittadini. Né di limitare la libertà di pensiero e di parola di quanti temono, credenti o non credenti, che si stiano ponendo le premesse per uno stato etico che può decidere quando una vita è o no degna di essere vissuta, o per quanti anni una persona in stato vegetativo possa o no essere assistita. Tutto ciò con il paravento della laicità e della libertà dell’individuo. La laicità diventa ideologia quando cessa di essere un metodo di confronto e pretende di farsi interprete univoca del senso della cittadinanza e introduce un concetto arbitrario di vita e di morte, che non ha alcun riferimento con i parametri dell’accertamento scientifico ma con la valutazione della qualità della vita. I cattolici hanno tutto il diritto di esprimere, come cittadini italiani, le loro preoccupazioni nei confronti di un caso che non attiene alla sfera privata dei singoli, o alla dimensione della coscienza morale individuale, ma alla politica sociosanitaria italiana, allo stato di diritto, alla questione centrale dell’indisponibilità della vita come garanzia di non discriminazione tra i cittadini in forza della loro condizione patologica. Non ci sono ragioni cattoliche, ma soltanto ragioni. Da questo punto di vista, non ha alcun senso cercare di trasformare questo dibattito in un confronto tra credenti e non credenti, perché ciò che è in gioco è il significato della cittadinanza e del tipo di democrazia che intendiamo difendere.


Centro di Ateneo di Bioetica
Università Cattolica del Sacro Cuore
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